di Andrea Cinciarini
Cosa sono i draghi? Cos’è la loro ombra?
Le mie paure, fin da quando ero piccolo, le ho chiamate così: draghi. I miei non sputavano fuoco, ma colpivano direttamente la mia autostima. Si dice che le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono, perché i bambini lo sanno già: le favole dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti. Affrontare un percorso terapeutico per me ha significato proprio questo: essere obbligato ad aprire quei cassetti di cui ero consapevole e dei quali ho provato in ogni modo a perdere le chiavi.
Ognuno di noi ha un talento innato. C’è chi ha una mano divina e riesce a disegnare la realtà su una tela. C’è chi ha una voce sublime e riesce ad ambire ad acuti a cui gli altri non possono arrivare. C’è chi sente dentro un dovere, quello di trascinare gli altri a essere migliori: a farsi seguire, in campo e nella vita. Io appartengo a quest’ultima categoria. Quelli a cui piace sentirsi leader, caricarsi qualcosa sulle spalle e portarla al trionfo. Quelli che sentono la necessità di dare l’esempio.
Ma non è sempre stato così.
Quando mia moglie Alessia – che nella vita fa la life coach – mi ha costretto ad aprire per la prima volta i cassetti, il bambino prodigio e l’atleta capitano dell’Olimpia Milano si sono ricordati di un adolescente cicciottello che subiva il paragone con il fratello. Lei lavorava in un’azienda americana, io leggevo libri di alimentazione e mentalità. Un giorno abbiamo deciso di unire i nostri lavori e provare a migliorare Andrea Cinciarini, il cestista. Sapeva dove colpire: è entrata nella mia testa, e successivamente lo hanno fatto altri professionisti.
Ho capito prima di tutto che non ero un leader per gli altri. O meglio, non solo. Ho capito che prima di tutto ero diventato leader di me stesso. Ho imparato cosa significa prendere davvero coscienza di qualcosa.
Alessia ha sviluppato la sua tesi su di me. Un lavoro bello e stimolante, composto da soddisfazioni e litigi, com’è giusto che sia. Mi ha portato ad affrontare i miei draghi. Nei miei cassetti ho trovato paure pesanti, con cui avevo fatto i conti solo passivamente. Le avevo subite, insomma, e niente più.
Quando ero un bambino, segnavo 35 o 40 punti a partita. Ero un piccolo fenomeno. Avevo 6 anni ed ero fortissimo. Un giorno, senza che io me ne accorgessi, è arrivata quella fase che tanti chiamano “sviluppo”. E se prima ero il più alto di tutti, ora non era più così. Se prima ero agile e slanciato, adesso ero paffutello e senza quelle caratteristiche fisiche che i miei coetanei lanciavano dentro a un canestro. Ogni partita, ogni mese, ogni anno, c’era qualcuno pronto a ripetermi: «Io l’ho visto giocare suo fratello, è molto più forte di lui». Per chiunque, Andrea Cinciarini non poteva diventare un giocatore di basket. Era solo «il fratello scarso».
Non riuscivo più a battere l’uomo, mentre mio fratello di 3 anni più grande spaccava tutto. I miei genitori mi ripetevano che sì, io avevo le qualità e avrei realizzato i miei sogni. Il campo, però, all’epoca diceva il contrario. E il campo non mente mai, è difficile non credergli. Avevo i suoi stessi allenatori, con 3 anni di ritardo, e non c’era uno che dicesse: «Andrea è bravo». No, ero «il fratello scarso».
Dieci anni più tardi, sparando fuori tutta l’insicurezza che avevo accumulato, mi sono regalato una seconda giovinezza. Ho capito che la testa fa l’80% di un giocatore. Ho imparato a riconoscere, attraverso il mio percorso, quando qualcun altro ha un problema: gli occhi spenti, oppure il muso lungo. Ho percepito l’importanza di scindere, di non farsi condizionare da un litigio con un amico nella famiglia, o a sua volta non portare un problema con i figli sul campo da gioco. Non mischiare niente, gestire tutto con attenzione e oculatezza. Non puoi portare dentro il peso del mondo, né trascinarti le ansie sul parquet. Ho avuto la fortuna di trovare una persona che mi ha aiutato a trovare la continuità, che differenzia un atleta di alto livello da uno normale.
La mia vita mi ha educato a giudicare i momenti delle persone nella loro interezza. Che se per un momento va male, non sei scarso. Ci sono miliardi di fattori che influenzano il rendimento. Non giochi e sei scarso, no. Io, ad esempio, ero grassottello, ma ho sempre pensato che il lavoro paga. Il duro lavoro paga, sempre. Mi è capitato quando ero il terzo play a Montegranaro: sono andato in A2, a Pavia, per giocare. Ero un ragazzino e alla fine ce l’ho fatta. A Milano ero la terza scelta, avevamo perso male la Coppa Italia di 20 punti contro Cantù e davanti a me c’erano Jordan Theodore e Curtis Jerrells. Il secondo si fa male, gioca Theodore ma anche lui incappa in un infortunio. A quel punto, tocca a me: vengono promosso playmaker titolare. In campionato vinciamo 10 partite di fila, in Eurolega andiamo alla grande e vinciamo lo scudetto. Non ho mai mollato e ho colto la mia occasione in una grande società. Un fuoco dentro, sempre acceso.
Come quando, l’ultimo anno, sono rimasto ai margini, in tribuna. Avevo 35 anni, da capitano a oggetto fuori dai piani. Ma arrivavo un’ora prima e me ne andavo un’ora dopo. Mi spaccavo di extrawork e con Giustino, storico preparatore atletico dell’OIimpia, continuavo a correre e prepararmi oltre il dovuto. Giustino è stato fondamentale nel mio cambio di passo: sto meglio adesso di 10 anni fa. Lo dice lui, lo dico io, lo dice il campo.
Il periodo più brutto a Milano è arrivato all’apice della mia consapevolezza. Il lavoro che avevo iniziato anni prima, fuori dal campo, mi aveva donato una nuova autostima e la consapevolezza delle mie potenzialità. Sapevo bene chi fosse Andrea Cinciarini, come uomo e come cestista. Mi sono rafforzato, ho migliorato la mia postura, ho diversificato le modalità con cui scendevo in campo. Un altro tipo di giocatore. Avevo imparato a riconoscere quando qualcosa non va, in me e negli altri.
Certo, se lo noto in un avversario, me lo mangio. Un compagno, invece, lo aiuto.
L’esempio che mi porto dentro, quello a cui sono affezionato di più, riguarda Simone Fontecchio. Ora lui è al top, in NBA, ma non dimentico quando era timido e impacciato. Un ragazzino perso a Milano, che non aveva ancora un’identità. Era triste, giù di morale. Le potenzialità le aveva, poi si è visto. L’ambiente non faceva per lui: era giovane, insicuro, e aveva bisogno di altro. Non riusciva proprio a venire fuori. Aveva bisogno di una possibilità reale. Gli stavo addosso: «Dai Simo, non mollare». Ricordo bene che gli riempivo la testa di frasi come «Vai avanti per la tua strada», lo invitavo a fare extrawork con me. Sapevo che sarebbe arrivato. Quando mi ha chiamato per dirmi che aveva l’offerta dell’Alba Berlino, che sarebbe andato in Germania, ero felicissimo. Se ripenso al ragazzo che ho visto io, e quello che è diventato, soprattutto per quello che ha fatto agli Europei, mi piace pensare che se oggi è in NBA, lo 0,1% è anche merito mio.
Ho superato i draghi e ho scoperto tante passioni. Innanzitutto, ho cambiato completamente il mio modo di vivere. A Milano ho scoperto la crioterapia: adesso ne faccio 4 a settimana. Ho letto tantissimi libri di alimentazione, che mi ha accompagnato negli studi per 10 anni. Ho stabilito una dieta efficace dopo varie prove. Mangio esclusivamente farine integrali, e pollo. Mi sono affidati a vari nutrizionisti, mi sono documentato.
Mangio farine integrali perché sono le migliori. Certo, ciò non significa che non mangi la pizza o la lasagna, ma in alcuni periodi non me le concedo per mia scelta. Se proprio devo sgarrare, prendo un gelato per peccato di gola. Preferisco stare senza pizza per due mesi e mangiarla con gli amici d’estate, insieme a una birra.
Sì, so cosa state pensando: senza pizza per due mesi!
Ma non mi pesa. Si fa. E poi amo le routine. Baso la mia vita su routine preimpostate. Che si giochi in casa o in trasferta, in Italia o in Europa, io dalla sera prima mangio ogni volta allo stesso modo. Pollo e pasta integrale. Cena del giorno prima, colazione, pranzo, merenda: tutto sempre identico. Ho fatto delle prove e il corpo ha memorizzato questa prassi. Certo, nel gameday non metto il parmigiano sul pollo. Lo amo, ma il giorno della partita, evito. Sono due proteine diverse, le mischierei. Per il resto, sì. Ogni volta.
Capita che per 30-40 giorni, io mangi solo pollo e pasta integrale. Ho abituato il mio corpo a questa alimentazione. Non sgarro. Ho capito che per mantenermi, devo avere organizzazione su tutto. Negli ultimi 10 anni, i miei continui cambiamenti per conservarmi e migliorarmi, mi hanno allungato la carriera e fatto sentire meglio. Sono cresciuto anche grazie a questa conoscenza di me. Non bevo bibite gassate, i cereali li prendo integrali. Insomma, tutto così. Mi concedo una birra dopo una vittoria, sono umano anche io.
A tutto questo, unisco la crioterapia. Alcuni compagni spesso mi dicono «Ma come fai? Fa freddo!». Non li capisco. Io percepisco dei benefici assurdi. D’altronde è il nostro corpo, la nostra macchina: devi prendertene cura. A Reggio, già nella prima esperienza, avevamo delle enormi vasche di ghiaccio. A Milano ho affinato la tecnica e ne sono diventato dipendente. Ho comprato un Normatec per la pressoterapia a casa.
Sono leader di me stesso. Mi gestisco e mi monitoro. Non c’è cosa più bella di sentire questo: fare le cose non perché devi, ma perché vuoi. Che sia il mio corpo o che siano i miei figli. Tutto con naturalezza. Se mi accorgo che il mio polpaccio non è come al solito, intervengo io prima dei medici. Se mi sento stanco, rallento. Se mi sento in forze, vado oltre. Quando capisci come funziona il tuo corpo, sotto tutti i punti di vista, hai vinto. Chiunque ha degli up e dei down: bisogna lavorarci e capire quando accadono. Ammetterlo: sia mentalmente, che fisicamente.
Allenare la presa di coscienza, insomma. Quando sei consapevole, sei un passo avanti. Anche perché, sennò, i draghi non li sconfiggi.
Si erano ripresentati quando ho visto nascere Alessandro, il mio primo figlio. Avevo paura di non essere un buon padre. Io e Alessia trascorrevamo 24 ore al giorno insieme e all’improvviso, ecco qualcosa di nuovo, pronto a rivoluzionare le nostre vite. Temevo di non potergli dedicare il giusto tempo tra trasferte e allenamenti. Se sono riuscito a gestire la sua nascita, soprattutto mentalmente, è stato merito del percorso personale degli ultimi 10 anni. Mi sono accorto di quanta strada abbia fatto. Gli equilibri sono cambiati: ti gira la testa e devi essere lucido. Non puoi sbagliare. Le paure diventavano sempre più grosse e le responsabilità più pesanti. Ho avuto paura fin dalla sua nascita: ero all’Europeo e sono arrivato qualche ora dopo la sua venuta al mondo.
All’inizio, potevo assentarmi per 10 giorni, quando tornavo mi chiedevo: se sbaglia, lo sgrido per insegnargli qualcosa o cerco comunque di coccolarlo, dato che sono stato assente? Un dilemma che ho sconfitto con il tempo. Educare qualcuno, da lontano, non è semplice. Quando si è presentata l’opportunità di tornare a Reggio, con mia moglie abbiamo deciso che loro sarebbero rimasti a Milano. Una delle partite più importanti della mia esistenza. Spiegare, poi, a tuo figlio che abiterai in un’altra città. Ma credo sia stato felice: mi aveva visto così tanto triste quando ero fuori dai piani all’Olimpia, che il mio ritrovato sorriso ha giovato anche a lui.
Essere leader di me stesso mi ha insegnato a prendermi le responsabilità nel modo corretto. Quando sono andato via la prima volta da Reggio, sono stato etichettato come mercenario. Ci ho messo la faccia, sono andato dai tifosi. E quando sono tornato, ho subito detto: «Giudicatemi per quello che farò in campo». Quando sono tornato a Cantù, gli Eagles mi hanno regalato una grande accoglienza e sono andato da loro ad abbracciarli. Quando a Milano un intero palazzetto invocava di superare i 100 punti negli ultimi 30 secondi, mi sono fermato per rispetto di Reggio, che mi ha dato tutto: siamo rimasti a 99, non potevo infliggere quell’umiliazione a chi mi aveva visto diventare uomo.
Adesso, in campo, sento che mio figlio mi sta guardando. Devo dare il buon esempio, per lui e per i bambini che mi osservano sperando di diventare come me. A volte, dopo le partite, mi dice: «Papà, perché hai mandato a quel paese un avversario?». E io: «Sicuro fossi io? Secondo me ti sbagli». Non è semplice fargli capire che in alcuni momenti complicati nello sport, un atleta può fare un gesto sbagliato, come calciare una sedia o litigare con un altro giocatore. Gli arbitri mi dicono che solitamente sono rispettoso, per fortuna.
Sono diventato grande e mi sento più in forma di prima. Sono capitano, leader, padre, punto di riferimento. Prima di tutto, per me stesso. A mio figlio ripeto la frase di Will Smith in ‘La ricerca della felicità’: «Se hai un sogno tu lo devi proteggere. Quando le persone non sanno fare qualcosa lo dicono a te che non la sai fare. Se vuoi qualcosa, vai e inseguila. Punto». Mi ha contraddistinto e l’ho fatta mia, negli ultimi anni più che mai. Mi preoccupo che Alessandro e Vittoria non scelgano le amicizie sbagliate, che non incontrino i draghi.
Gli mostrerò che non tutti i draghi vengono per nuocere. Alcuni si rivelano per permetterti di accorgerti che puoi stare meglio.