di Riccardo Visconti
Sono sicuro che ognuno di voi ricorda la sua notte prima degli esami. Vuoi perché i film ci hanno legato ancor di più a quel momento, quando l’adolescenza finisce e lascia spazio a qualcosa di più grande. Vuoi perché la tensione, la percezione di un ciclo che finisce e l’ansia da prestazione vincono su tutti gli altri sentimenti. Qualcuno di voi l’avrà trascorsa ripassando con la speranza di non beccare proprio ‘quella’ domanda, qualcun altro sarà stato in giro con gli amici di sempre. Io, la sera prima della Maturità, ho vinto uno Scudetto.
Era il 2017. Giocavo a Venezia.
Mio padre, prima della partita, mi chiamò pregandomi: «Riccardo, mi raccomando, ti scongiuro. Sali in macchina con qualcuno, almeno sai che arrivi in tempo a scuola. Se vincerete, festeggerete. Mi raccomando, hai la prima prova domani».
Papà non te l’ho mai detto, ma quel giorno ti ho risposto «Sìsì» ma… sono salito in pullman con i miei compagni e al ritorno abbiamo pure bucato! Sì, abbiamo bucato nella strada da Trento a Venezia. Non so che ora fosse, avevamo fatto festa fino a tardi e a un certo punto ho iniziato a temere di non arrivare a scuola in tempo. Una volta riparata la ruota, siamo arrivati a Venezia. Erano le 2:30 e i tifosi ci stavano aspettando: ho pensato che non sarei mai riuscito a dare la Maturità.
Sono rientrato alle 7! L’esame era alle 8:30! Mi sono addormentato un’ora e per fortuna una delle persone che si occupava di noi atleti in foresteria mi ha svegliato, portandomi di corsa a scuola. Nonostante fosse una scuola pubblica e io fossi in ritardo, mi hanno aspettato. Non solo: tutta la scuola mi ha accolto con un boato di tripudio. Sensazionale… ero in condizioni complicate ahah! Alla prima domanda ho chiesto il cambio, non ricordo niente di quei momenti.
Insomma, lo avete capito. Mi piace prendere la vita così, ma ho la testa sulle spalle anche se non sembra!
Anche perché, sennò, nella vita non ne fai di strada. E neanche nel basket. Fin da piccolo ho dovuto vincere il duello con la mia amata sorella Alessandra. Negli anni ci siamo sempre presi in giro: si è fatta vent’anni di Serie A. È stata anche 1a nel ranking mondiale di 3 vs 3. Ho dovuto rincorrere le sue vittorie: lo Scudetto a livello giovanile, quello dei grandi. Dopo avermi preso in giro dicendomi «ora ti manca la Nazionale!»… eccomi qui.
Un esordio che definire inaspettato è dir poco. Ma sicuramente l’emozione è stata tanta. Talmente inaspettato che è avvenuto tutto rapidamente. Ho trovato un ambiente che mi ha fatto sentire lì dentro come se ci fossi da tante stagioni. Un’emozione che diventa ansia, che ti spaventa. Una figata, però. Quello che tutti i ragazzi sognano. Quando sono entrato in campo, però, la pressione è svanita.
E poi? E poi l’ho sparata dentro al canestro. Pochi giorni prima, in ascensore, avevo incontrato Pippo Ricci. Dovevo scendere nella hall. Mi fa: «Come ti senti?». Gli rispondo un po’ teso: «Emozionato, spero non un’emozione che mi blocca». Il suo consiglio mi ha spalancato gli occhi: «Ma stai tranquillo! Entri, difendi come un pazzo e spari tutto». E allora io ho sparato: canestro dopo 17 secondi all’esordio in Nazionale!
Capite?
Un esordio proprio da me. Mi piace essere me stesso in ogni situazione. Come davanti alla telecamera.
Durante il lockdown ho capito che avevo l’esigenza di fare un salto a livello comunicativo. Di mettermi in qualche modo a disposizione del mio sport e dei suoi tifosi. Quando ho iniziato a giocare a basket, andavo nelle scuole a raccontare la mia esperienza – ricordo, ad esempio, a Mantova – e le domande che i bambini mi rivolgevano erano: «Quanto sei alto? Che numero di scarpe hai? Quanto guadagni? Quanti follower hai?».
Mi sono detto: «Cavolo, ma io non sono solo questa roba qua. Non li vedete i sacrifici che sto facendo per il mio sogno?». Ho sentito la necessità di andare oltre, di portare le persone dentro alla pallacanestro e alle dinamiche che portano un ragazzo a diventare prima atleta, e poi giocatore. Mi trattavano come un loro eroe. Mi sono fatto il mazzo, e sono una persona qualsiasi.
Ho preso in mano la mia immagine per comunicare. Sono contento che, negli ultimi mesi, anche le squadre della nostra Serie A abbiano iniziato a lavorare bene in tal senso.
Vorrei contribuire a normalizzare lo sport. Dimostrare che non è tutto scontato. Io sono qua, come gli altri giocatori. Chi è stato baciato dal talento, però, del talento in sé non se ne fa niente. Non chiedetemi dei follower. Chiedetemi quante volte mi alleno in un giorno, quante ore trascorro in palestra. Come trovo la mia consapevolezza, quanto è importante il lavoro. Lo noto anche nel calcio, tutti ci spacchiamo per arrivare ma quel che appare è soltanto la punta dell’iceberg. In realtà, sotto, esiste un mondo che non si vede. Quello in cui lasci la famiglia da ragazzino, dove vuoi concludere la scuola senza sacrificarla, dove rischi di perdere le piccole cose. Ed è quello che voglio raccontare.
Poi magari non frega niente a nessuno, ma se colpisco anche solo una persona, ce l’ho fatta.
Certo, sarei ipocrita se dicessi che questa è la vera soddisfazione. La vera soddisfazione è vincere. Ma la vittoria non cancella la strada che ho fatto. Per essere qui ho messo tutto me stesso sul piatto.
E poi lo sport l’ho subito portato in campo con me. La mia prima foto su Instagram è un selfie con Bruno Cerella che ai tempi giocava Milano, mentre io ero a Venezia. Volevo già raccontare.
Non lo vedo come un espormi in prima persona, ma più come esporre il panorama della pallacanestro nel raccontare la mia vita. I miei compagni a volte se la ridono per i miei contenuti, perché sono il primo ad auto- memarmi e prendermi in giro. Non ho mai visto un feedback negativo da parte loro, rispetto la privacy e mi fermo sempre un attimo prima di poter riprendere qualcosa che potrebbe minare la squadra. Io voglio essere me stesso, fare quello che mi sento. Sicuramente non è che facendo un TikTok mentre racconto una mia caduta o io che sbatto su un blocco, allora vuol dire che sono un cattivo giocatore di pallacanestro o che pensi solamente ai social e non alla pallacanestro. Ho un hard-disk con tutti i miei video da quando sono nato. Lo apro, prendo ispirazione e monto il video. Magari ho una caduta dalle braccia dei miei genitori, e la monto con una in campo di questa stagione. Mi diverto. Ma ho tutto un mondo dietro. A volte posso fare lo scemo, ma sono prima una persona seria.
Questo vale per ogni sport. Faccio un esempio: tutti sappiamo che a Ciro Immobile piace giocare alla PlayStation. Che male c’è? Non è che allora non pensa al calcio se posta un video mentre gioca. E lo stesso vale per noi. Sono iscritto all’università, sono laureato, mi piace fare i lavori manuali: d’estate ristrutturo casa mia, posso fare 1000 altre cose. Per fare un TikTok ci metto 3 secondi e mezzo e racconto una virgola di me. Ho tutta un’altra giornata dove mi alleno, dove sono concentrato per la pallacanestro. Poi, per evitare polemiche, dal venerdì non pubblico più niente fino a dopo la partita.
Ho trovato uno spazio libero. Mi diverto a vedere quello che fanno le altre squadre, come la Dinamo Sassari. Servono i sorrisi, con i sorrisi è tutto più facile. Anche nel calcio, il Parma e il Napoli stanno seguendo questa wave. Per il basket, è un modo per avvicinare le persone. Credo che l’80% delle persone non conoscesse la Dinamo prima di TikTok. E adesso hanno ampliato il loro pubblico, così come la fanbase della pallacanestro italiana, che comunica messaggi positivi e leggerezza. Un bene per tutto il sistema e io voglio essere parte di questa affermazione, di questo cambiamento.
Anche stigmatizzare il risultato negativo è diventato un mantra. Quando ho visto il TikTok di Reggio con la classifica capovolta, nonostante fossero ultimi in classifica, sono rimasto interdetto. Poi mi sono detto: perché non devono riderci? Loro dimostrano ogni giorno di farsi il mazzo per sovvertire quei risultati. Ma se fanno ironia, prendendosi in giro, cercando di comunicare con messaggi positivi, non significa che non ci tengono o non si stanno impegnando. I meme non devono offuscare il lavoro giornaliero.
Le nuove generazioni devono prendere spunto. Io penso sempre che dalla mia esperienza possano beneficiarne tutti: voglio che attraverso un mio video dove dimostro i sacrifici che servono per raggiungere i propri sogni, qualcuno colga l’occasione per essere stimolato nei propri. Che giochi a pallacanestro, che suoni la chitarra, che voglia disegnare.
Non voglio le visualizzazioni, voglio normalizzare.
Non credo che in futuro tutti saranno obbligati a comunicare. So che ognuno deve rispettare se stesso e la sua natura. Io butto me stesso in questa giungla, a qualche mio compagno invece non entra passa neanche per la testa. Dipende anche dalle generazioni: ho avuto il mio primo telefono a 13 anni, non esisteva neanche WhatsApp!
Credo che con il tempo, la visione dell’atleta cambierà. Che portare gli utenti dentro al campo sarà normale, così come esporsi sarà normalizzato.
Tempo fa, un allenatore mi ha detto: «La verità è che la verità cambia». Mai frase è stata più azzeccata.
Credits fotografici: Ciamillo&Castoria