Microfono aperto

di Awudu Abass

Solitamente sono abituato così: un goccio d’acqua, mi siedo davanti al microfono e inizio la registrazione.

Quando ho creato StepOut, erano 3 anni che ci lavoravo. Era giunto il momento di elevare la discussione, ma non avevo in progetto di imparare qualcosa. Avevo paura ad espormi: non ci sono tanti atleti in attività che producono contenuti in prima persona. Dopo una riflessione, mi sono detto che se qualcuno avrebbe parlato di me, che lo facesse pure. Era tutta pubblicità gratis. Sono diventato un imprenditore, ci ho messo interesse e ho capito quanto sia complicato trovare sempre argomenti diversi. Con l’esperienza, inizi a conoscere gli ospiti e si crea il passaparola. Adesso è un mix che ha il suo effetto. Non si parla solo di basket, ma se invito un artista cerco di collegare alcuni aspetti alla pallacanestro. 

Parlare face to face ti tocca nell’orgoglio e accende la discussione: se ascoltassi soltanto, non mi sarebbe queste sensazioni. Invece StepOut mi ha accresciuto come persona, messo davanti a tematiche stimolanti.

Ma oggi è il mio viaggio. Microfono aperto.

 

 

Scendiamo di qualche migliaio di chilometri. Ghana, anni ’70. Mio padre è troppo alto per non provare il basket: 2,05 metri! All’epoca, nella maggior parte dei paesi africani esisteva solo il calcio. Non c’era neanche un campo di pallacanestro, ma la sua passione è andata oltre: ha fatto qualche esperienza di basso livello a Como e in Australia, trasmettendomi la voglia di mettermi alla prova in questo sport. Avevo 4 anni quando ho palleggiato per la prima volta, sul terrazzo di casa. Nel paesino in cui abitavo c’era un allenatore che mi vide. Guardò come giocavo, poi vide mio padre così alto e disse: «Se suo figlio gioca così e lei è oltre due metri… c’è da ben sperare», e mi prese nella sua squadra a Tavernerio. Intorno ai 9 anni mi sono trasferito all’Antoniana Como, che porto sempre nel mio cuore.

La fatalità ha voluto che, durante le finali regionali dei tornei scolastici di 3 contro 3, in palestra ci fosse Nicola Brienza, allenatore di Cantù. Mi notò e feci un altro passo in avanti: Cantù! Che poi è diventata casa. Dalle giovanili in Prima Squadra. Sono rimasto per 11 anni.

Erano gli anni in cui vidi in televisione la Nazionale Italia alle Olimpiadi di Atene sfiorare la medaglia d’oro. Un gruppo compatto: non erano gli Stati Uniti, la Lituania o l’Argentina, ma avevano qualcosa di speciale che li ha portati fino in finale. Tutti ci davano dentro. Nessuno ragionava come un singolo.

Erano gli anni in cui la mia famiglia mi ha dato equilibrio. Perché è questo che fa la famiglia. Uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna: non fa differenza. Sono cresciuto con due persone per cui il lavoro ha sempre rappresentato una componente fondamentale. I risultati, se li vuoi, li raggiungi soltanto lavorando. Non arrivano per osmosi, ma dandoci dentro. E loro hanno fatto tantissimi sacrifici per raggiungerli. Quando sono cresciuto, ho sentito di dover diventare un perno per mio fratello, un terzo genitore che gli potesse dare la spinta giusta per affermarsi nel mondo della musica. Anche dopo gli infortuni non ho mai pensato di smettere perché avrei gettato al vento vent’anni di fatiche da parte dei miei e degli zii. Gli infortuni sono incidenti e gli incidenti accadono per un motivo: forse non ero pronto, e dopo lo sono stato. E adesso lo sono, più che mai. I miei genitori sono due operai senza conoscenze a livello cestistico. Si sono sempre affidati ai miei allenatori: «Trattate bene nostro figlio, basta che ce la faccia».

 

 

La mentalità è ciò che mi ha spinto a espormi nella mia vita e durante la mia carriera. Ho sentito le parole di Gilbert Arenas che mi hanno illuminato: non serve a niente esultare come un pazzo quando segni e poi incazzarti e sbraitare quando sbagli. Quando ti va male, devi comunque dire al tuo corpo che hai fatto un buon tiro. Devi seguire il gesto, come se l’avessi buttata dentro, dai positività al tuo corpo. Se guardi  Jimmy Butler, il giorno in cui ne ha messi 56, partì con 0 su 7.

La pazienza paga. Se lavori duro e nel modo giusto, la pazienza paga.

Quando ho esordito con Cantù, la società era nel momento prime con la squadra in Eurolega. C’erano Mazzarino, Mark’oishvili, Basile, Marconato, Mian… mi hanno insegnato a essere professionale. Io avevo 17 anni e loro erano dei veterani. Coach Trinchieri un giorno mi prese da parte: «A fine allenamento te ne torni a casa. Guarda Mazzarino: resta e tira 200 volte verso il canestro dopo l’allenamento». Mi sbloccò le vedute. Ero un ragazzo e avevo sicuramente più energie di loro! Dovevo impiegarle nel miglioramento personale e professionale. 

Qualche anno dopo stavo esordendo contro il Real Madrid in Eurolega. Non sapevo neanche di dover andare in campo, me lo hanno detto nel pre-gara. Ero sorpreso, sono andato a letto alle 7 del mattino dopo aver festeggiato tutta la notte con i miei amici. Mark’oishvili mi ripeteva ogni giorno: «Sei fortissimo, ce la farai!». Ci credevano più i miei compagni di me, in quel momento.

Tutti noi prendiamo ispirazione da qualcuno o da qualcosa. Quando sono rientrato in campo, le persone dubitavano che potessi stare al livello. Leggevo le critiche, vedevo, osservavo… quando hai la sensazione che il mondo ti sta dimenticando, non è facile restare nel dark e limitarsi a guardare cosa succede. Tu sei lì, dietro le quinte, e ti segni tutto: quello mi ha dato benzina.

Mi dà benzina vivere città calorose. Le Basket-City come Bologna e Cantù hanno segnato la mia carriera. Cantù è un paese, a dire il vero, e lì solo chi ama il basket si interessa: il tifo è infuocato, si parla molto della squadra; a Bologna, invece, che è una città, anche chi non lo conosce dice la sua sul basket e esprime un’opinione. La pallacanestro è qualcosa di trasversale in luoghi del genere.

E poi c’è stata la tappa di Milano: non la definisco un’esperienza fallimentare come può accadere guardandola da fuori. Tante volte la gente si stupisce, ma io le ultime 10 partite in Eurolega con l’Olimpia le ho sempre terminate in doppia cifra. Il secondo anno, qualunque cosa facessi, tutti si giravano dall’altra parte. Il modo perfetto per uccidere un atleta è uccidergli la fiducia: è difficile per molto quando non si è considerati, sia che tu possa far bene che male. In quei casi, o prendi la forza e vai avanti, oppure se non hai il carattere giusto sprofondi. Io non volevo sprofondare. Ad esempio, a Milano quando ero fuori, dal 6 novembre mi sono allenato ogni giorno per 30 minuti insieme a Esposito. Ho migliorato alcuni aspetti che prima non erano miei, come l’eurostep o il contropiede. Tutte cose che mi sono ritrovato successivamente, da Brescia in poi. Per questo non parlo di fallimento, quando penso a Milano.

 

 

Bologna è stata la grande occasione. Dopo il secondo infortunio ho capito che avrei dovuto darci dentro per tornare ai miei livelli. E solo Dio sa quanto ho dato! Ogni giorno, alle 7 di mattina, a lottare. Lo Scudetto vinto mi ha aiutato a togliermi un peso, ma la rivincita me la sono presa solo con me stesso.

Mia moglie mi ha insegnato a elevarmi in tutto ciò che faccio. E Bologna era il momento giusto per elevare la mia carriera.