a cura di Giordano Ravera

Alessandro Ramagli è tornato a Verona e adesso vuole mantenere la Serie A.

Abbiamo parlato con il coach della Scaligera, alla seconda esperienza in carriera sulla panchina gialloblù.

Alessandro Ramagli è arrivato sulla panchina della Scaligera Verona nel 2021. O meglio, ci si è seduto nuovamente dopo la parentesi tra il 2012 e il 2015: «Sono tornato con la squadra che si trovava in difficoltà. La scelta è stata facile, si erano create delle connessioni, una certa confidenza. La struttura e le persone erano le stesse, così come la proprietà e le sue linee guida. Abbiamo una leadership paternalistica, c’è una persona carismatica al comando, Gianluigi Pedrollo, che è il nostro presidente, è a capo di un’azienda importante e ama pallacanestro. Allo stesso tempo l’ambiente è molto familiare, con il figlio Giorgio che ricopre il ruolo di vicepresidente e una serie di collaboratori molto legati alla società. Quando entri in una famiglia, diventa tutto più semplice. I rapporti personali hanno un peso importante. È anche grazie a tutto questo che l’anno scorso, con grande sorpresa, siamo tornati in A dopo 20 anni di assenza. Non eravamo candidati alla promozione, ma le belle favole ogni tanto succedono. Ora proveremo a tenercela stretta».

 

L’obiettivo immediato era la risalita: «Eravamo un club organizzato già in A2: c’è disponibilità all’investimento umano, alla ricerca di nuove risorse, alla svolta tecnologica. Gianluigi Perdollo è un imprenditore di alto livello, non è immediato entrare in sintonia con lui, ma quando poi trovi la lunghezza d’onda giusta, diventa tutto molto semplice. Si è circondato di persone di grande qualità, che sanno interpretare le diverse situazioni, in grado di svoltare i trend negativi e cavalcare quelli positivi. La nostra catena di comando è ben chiara. Nello sport più persone sono coinvolte nelle decisioni, più i tempi si dilatano. Questo è disfunzionale. Le decisioni veloci, ma non affrettate, sono fondamentali. Il fatto che da noi presidente e vicepresidente siano padre e figlio, aiuta molto. La nostra struttura è snella. Non incontriamo grandi difficoltà nella definizione degli obiettivi e dei mezzi da utilizzare, compresi brutalmente i giocatori che vanno in campo, così come la definizione dei metodi e delle strategie. Avviene tutto in modo molto naturale». L’amore per il basket della città ha aiutato il Club, senza dubbio: «Verona è una città dove lo sport riveste un ruolo molto importante. Una città innamorata della pallacanestro, come dimostra lo zoccolo duro di tifosi sempre presenti anche in A2 e Serie B. Quando siamo tornati nella massima serie, il fuoco che era nascosto sotto la cenere è divampato nuovamente, in modo deciso. Nonostante questa passione, rimane una città discreta, rispetto ad altre città dove ho allenato, come Bologna e Pesaro, dove il basket è un oggetto di culto. Qui c’è un affetto diverso, verso lo sport in generale, che sia calcio, volley ma anche verso gli sportivi del posto come Federica Pellegrini. Non è una città invasiva».



Ramagli, come detto, a Verona ci è tornato: «Durante la mia prima esperienza a Verona, ero al terzo anno, andammo dritti per dritti per vincere il campionato. Dominammo la stagione regolare, vincemmo la Coppa Italia ma poi perdemmo al primo turno di playoff contro l’ottava qualificata. Un sogno infranto. Il contrario rispetto alla scorsa stagione. Avevamo costruito una squadra con tanti giovani e qualche punto interrogativo che, improvvisamente, da brutto anatroccolo si è trasformata in un cigno e ha vinto il campionato. Capita di programmare una stagione in all-in e non riesci a raggiungere l’obiettivo, così come succede che progetti una stagione di crescita e improvvisamente ti trovi a giocarti la promozione. Quando cominci a vincere, nascono delle pressioni positive, che ti fanno godere quello che stai facendo. Quando invece sei costretto a vincere, le pressioni hanno una connotazione negativa e ti costano caro».



«Quando fra un giorno, un mese o un anno me ne andrò, sono sicuro che qualche piccolo granello lo avrò lasciato, è sempre successo nelle 11 squadre che ho allenato in carriera. Qualcosa di significativo è sempre rimasto, qualche piccolo principio ispiratore», perché per Ramagli, come per altri coach, la vera vittoria sta proprio nel lasciare il posto migliore di quando si è arrivati. «Ai giocatori va cucito addosso un vestito, va modificato, bisogna cambiare un bottone, un’asola. Anche i giocatori che rimangono tanti anni, ciclicamente devono cambiare questo vestito. Ognuno deve sempre avere la sensazione di essere qui per fare un piccolo step di crescita, che sia la possibilità di andare a giocare in una squadra più forte, di essere convocato in nazionale o di diventare un americano appetibile per i team che disputano le coppe europee. Quando i giocatori rimangono in una zona di comfort e questa diventa un habitat naturale, allora si abbassa il livello di performance. Il mio compito è far sì che questo non accada», soprattutto perché nella sua carriera, Ramagli di talenti ne ha cresciuti.

 

Le ambizioni, guardando nell’immediato, sono chiarissime: «Il futuro passa necessariamente attraverso il mantenimento della categoria, ci permetterebbe di fare un ulteriore step, di solidificare certe basi. È una battaglia giornaliera, spietata, contro piazze con tradizione, risorse e strutture anche più solide della nostra. La nostra mission è quella di proiettarci verso il next step: restare in A e ringiovanire il bacino d’utenza. È la cosa più importante nello sport. Lo switch decisivo. Lo sport non può fare a meno dei giovani per innovarsi».