a cura di Giordano Ravera e Giacomo Brunetti
David Moss e Amedeo Della Valle sono due punti di riferimento per il Brescia.
Esperienza e qualità al servizio del gruppo di Magro: i due giocatori ci raccontano la realtà bresciana.
Brescia. Dove arrivi quasi per caso, ma poi non riesci più ad andartene. È quello che è successo a David Moss nell’ormai lontano 2016. «Il mio contratto con Milano era in scadenza. Sono tornato a casa, negli USA, mentre continuavano le contrattazioni per il rinnovo. Io volevo continuare a giocare in Eurolega. A metà luglio il mio procuratore mi dice: ‘Che vuoi fare?’. Io ho deciso di aspettare la chiamata giusta. Sono rimasto in Illinois per 5-6 mesi, lunghissimi. Ho lavorato su me stesso, mi sono appassionato di fotografia e ho passato del tempo in famiglia, ma mi mancava giocare. A marzo arriva una chiamata. ‘Brescia? Dov’è? In serie A2? Ma dai!Non voglio retrocedere’. Alla fine mi sono convinto, dovevo dimostrare che potevo ancora fare la differenza. Sono arrivato a marzo, poche partite prima dei playoff. Volevo aiutare ma senza distruggere il ritmo e gli equilibri della squadra. Ha funzionato. Il roster era di livello, abbiamo iniziato benissimo la postseason e l’abbiamo conclusa ancora meglio, con la promozione».
Questo è solo l’inizio per il nativo di Chicago, che in breve tempo diventerà il capitano e il simbolo della squadra. «Ora che si fa? Se l’obiettivo è vincere, allora torno anche l’anno prossimo, sennò vado da un’altra parte. Ma la risposta della proprietà ha cancellato ogni mio dubbio: ‘Sì, vogliamo vincere’. In più mi è sempre piaciuta la continuità. Sono arrivati giocatori fortissimi e la prima stagione è stata bellissima. Non c’erano aspettative ma siamo arrivati in finale di Coppa Italia e abbiamo sfiorato i playoff. È stata una delle migliori stagioni di sempre nella storia di Brescia. Negli anni successivi ci sono cambiati giocatori e coach, poi è arrivato il Covid. È stata durissima giocare senza tifosi, per me sono una fonte di energia sia in casa che fuori da avversario».
Ma la carriera di David a Brescia è un costante rinnovarsi di motivazioni. «Il cambio di proprietà ha portato nuove vibes, eccitazione. Lo scorso anno sono arrivati coach Alessandro Magro e dei nuovi compagni molto forti. Io pensavo: ‘Sarà una stagione incredibile’. Invece l’inizio è stato terribile. Da fuori, tutti volevano un cambio, o in panchina o nel roster, ma invece ci siamo compattati e siamo riusciti ad uscirne, lavorando duro. È arrivata una serie incredibile di vittorie consecutive. Il mio sogno è vincere qualcosa con questa maglia, che sia uno Scudetto, una Coppa Italia o l’EuroCup». Parole da leader, parole di un uomo che ha conquistato il suo status grazie a un’attitudine ben precisa. «Ho sempre giocato con grinta, con il cuore. Per me è normale, sarà che da giovane la mia vita non è stata facile. Fortunatamente il basket mi ha salvato la vita. Da 5 o 6 anni, ho capito che le cose che ho vissuto possono essere utili a chi mi sta intorno, in America si dice ‘to be a service’. Prima ero focalizzato solo sul basket, ora voglio essere d’aiuto per la comunità. Qualcosa di strano, se penso ai mei primi mesi in Italia. È stata dura, ho incontrato molto razzismo, mi sentivo ‘minaccioso’ attraverso gli sguardi della gente. La situazione non è migliorata da quando sono arrivato e, nel 2023, è assurdo continuare a parlare ancora di queste cose, le stesse che hanno vissuto i nostri genitori. Per fortuna in campo è diverso. Come i giocatori europei fanno il bene del basket NBA, noi statunitensi abbiamo portato la nostra cultura in Europa e il gioco è cresciuto. Quest’anno ho incontrato 7-8 giocatori che a fine partita mi hanno detto: ‘David, voglio dirti grazie, è un onore giocare contro di te, ti ho guardato giocare quando ero piccolo e mi hai ispirato’. Io dentro di me ho pensato: ‘Wow, davvero?’. Non gioco per questo, ma sentirmelo dire mi ha dato una gioia immensa».
A 39 anni la parola ritiro non è ancora nei programmi di Moss. «Voglio arrivare fino ai 42. Questo è il mio sogno. Sto lavorando per dimostrare che posso giocare altri anni e spero di aver ragione. Se il mio corpo mi dirà di fermarmi lo ascolterò. Dopo? Voglio stare vicino alla pallacanestro, in qualsiasi modo, da allenatore o da dirigente, magari. Vorrei rimanere a Brescia, anche per mio figlio che ora ha 4 anni. Se diventerà bravo nello sport andremo a studiare in America, dove ci sono più opportunità, ma voglio stare qui il più possibile. Brescia ormai la sento un po’ come la mia famiglia».
Brescia. Dove arrivi per far rientro in Italia, ma trovi molto di più. Parola di Amedeo Della Valle. «Ero in una fase della mia vita dove stavo cercando di capire dove andare, anche al di fuori della pallacanestro. Non ero al top emotivamente, mi sentivo lontano da casa. Stavo facendo qualcosa che non mi apparteneva fino in fondo. Passare dall’Eurolega a Brescia sembrava un mezzo passo indietro, ma era quello che mi sentivo di fare e sono davvero felice della situazione che si è creata». Per convincerlo non sono serviti effetti speciali, ma i valori nel DNA della Pallacanestro Brescia. «Il contesto mi è sembrato quello giusto per me. Dove potevo trovare serenità. La gente mi vuole bene, sento la stima del presidente, dei compagni e dell’allenatore. Mi è stata data l’opportunità di essere me stesso. La cosa più importante per me. Poi sono a due ore da casa (Alba, ndr) e a un’ora da Milano».
Una scelta che pronti via si trasforma nel premio di MVP della Serie A1, centrato alla prima stagione. Quella 2021/2022. In estate, però, i destini di Brescia e ADV sembravano sul punto di dividersi. «Sono un giocatore ambizioso. Volevo capire quali fossero le mie motivazioni dopo la scorsa annata, volevo capire come potessi realmente mettermi in gioco, volevo capire dove potevo continuare. Ho voluto continuare qui. Questa città è arrivata al momento giusto». Ma la strada di Amedeo, prima di arrivare a Brescia, ha vissuto tanti step, in Italia ma soprattutto all’estero. «Spesso viviamo i luoghi unicamente in base a come va il lavoro, emotivamente non c’è grande equilibrio, ma ho ricordi bellissimi di ogni posto, dalla Spagna al Montenegro. Budućnost è stata un’esperienza che non rimpiango, ma dentro di me sapevo che non sarebbe potuta durare a lungo termine. Il mio lavoro è importante, ma la mia vita lo è altrettanto. Per stare bene in campo, devo stare bene fuori. Quando sei lontano, vedi la vita passare davanti a te, mentre sei in un altro posto. A casa le persone a cui vuoi bene festeggiano i compleanni, stanno insieme e tu non ci sei. A un certo punto ti chiedi se ne valga davvero la pena».