Dwyane Wade: l’ultima luce del farewell tour

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Prima della stagione 2003/2004, otto giocatori hanno indossato la maglia numero 3 per i Miami Heat. Poi, Dwyane Wade è arrivato. Il 9 aprile 2019, all’American Airlines Arena è andata in scena l’ultima gara davanti alla sua città. Quella che da Dade County, il nome di una delle tre contee che compongono l’area metropolitana della città di Miami, divenne Wade County. In quindici stagioni, Dwyane Wade divenne tanto un nome noto e conosciuto nella NBA, quanto qualcosa di paragonabile ad un santo patrono locale.

La stagione 2018/2019, nominata la sua One Last Dance, è stata un tappeto rosso steso per più di 5000 chilometri. Da costa a costa, Dwyane Wade ha assaporato il rispettabile amore di una moltitudine di pubblico, che lo ha celebrato come merita, ossia il miglior giocatore di una generazione. La stessa che comprende tanti giovani ispirati dalla figura di Wade e cresciuti davanti ai suoi mixtape di highlights.

Il 9 aprile 2019, il tributo ha raggiunto il suo culmine. Nella sfida contro i Philadelphia 76ers, che ben poco avevano da chiedere a quella partita, Dwyane Wade segnò 30 punti, con il sorriso stampato in faccia, mentre chiunque assisteva al suo ultimo ballo in campo. “Questa città significa tutto per me. Spero siate orgogliosi di ciò che avete fatto per farmi diventare l’uomo che sono oggi. Mi avete permesso di crescere, e questa sarà per sempre casa mia”. Al termine della sfida, il riassunto di una carriera avviene con una delle gesta più rappresentative di Dwyane Wade. Quei tre passi verso il tavolo dei commentatori, ad abbracciare l’intera arena. This is my house.

Dwyane Wade: un fenomeno nato presto

Il viaggio che ha portato a quel 9 aprile 2019 non ha i suoi albori nella città di Miami. Il primo momento in cui Dwyane Wade si innamora della pallacanestro avviene nel South Side di Chicago. La città è pronta a celebrare il primo titolo NBA nella sua storia. I Bulls, guidati da Michael Jordan, si aggiudicano la serie per 4-1 contro i Los Angeles Lakers. Wade, a soli nove anni, è davanti alla sua televisione in bianco e nero, sente l’inizio dei festeggiamenti per le strade del suo quartiere. Per quanto giovanissimo, è consapevole del significato che quel momento ha per la comunità, di cosa il basket sia in grado di fare in termini di unità e gioia. Quella doveva essere la sua strada.

È la generazione del “Be Like Mike”. Da lì, Wade iniziò a studiare Jordan: le sue movenze, l’impatto a tutto campo, e cercò di incanalare dentro di sé quell’etica di lavoro che gli permetterà di entrare nella NBA come quinta scelta al Draft del 2003, uscito dal college di Marquette. In quel momento, era ancora lontano dal raggiungere il picco di talento che lo contraddistinguerà come una delle guardie più forti nella storia del gioco. Il magrolino ragazzo di Chicago era dotato di puro atletismo e capacità di bruciare l’avversario dal palleggio, ma il suo pacchetto offensivo si sviluppò con il tempo. In maniera più precoce di quanto chiunque possa pensare. Il desiderio di migliorare costantemente ed alzare la propria asticella è stato ciò che ha formato la sua grandezza.

C’è stato un momento di svolta nella carriera di Dwyane Wade. Durante le NBA Finals 2006, i Dallas Mavericks hanno il controllo della serie con un vantaggio di 2-0, e in quel momento anche di gara 3. Pat Riley, allora allenatore degli Heat, chiama un time-out, mentre a Miami si sentono soltanto le voci dei giocatori dei Mavericks pronti a celebrare un’altra vittoria. Nel silenzio, dall’huddle degli Heat attorno al suo allenatore si sente la voce di Dwyane Wade gridare: “Non lascerò finire la partita in questo modo”. Negli ultimi sei minuti di partita, con Dallas avanti di 13 lunghezze, Wade segnò 12 punti dei 22 totali di squadra, conducendola alla vittoria, e scrisse ufficialmente il suo nome tra quello delle stelle nella lega.

Ancor prima di quella gara Shaquille O’Neal, che stava attraversando un periodo difficile in termini di produzione offensiva, toccò un tasto più duro con il suo giovane compagno. “Vuoi essere come Kobe e Jordan? Questo è il tuo momento. Mettiti al lavoro”. In quei sei minuti, chiunque venne a conoscenza della vera potenziale essenza di Dwyane Wade. Una forza della natura. Erik Spoelstra, assistente di Pat Riley al tempo, commentò poi che nella sua carriera non trova cinque giocatori in grado di comandare e imporsi su due lati del campo in maniera così dominante come fece Dwyane Wade in quella occasione.

La vittoria in gara 3 fu un propulsore di fiducia di rara importanza. Gli Heat vinsero le tre successive sfide. Wade segnò 36, 43 e 36 punti, decretando la rimonta sino al 4-2 nella serie che valse il primo titolo nella storia della franchigia. Nel momento più caldo delle celebrazioni, mentre il Commissioner David Stern compie ringraziamenti ed elogi di rito, Shaquille O’Neal si appropria del trofeo di MVP direttamente dalle sue mani, per consegnarlo al suo compagno di squadra. “Wade è il giocatore più forte al mondo”, oltre che, al tempo, il quinto più giovane nella storia delle NBA Finals a vincere il premio, a 24 anni.

Da quel momento, cambia la percezione, la consapevolezza, e la carriera di Dwyane Wade. Diventa il volto della franchigia, evolve sempre più accuratamente il suo gioco, e compie il viaggio verso la leggenda. Il 9 aprile 2019 Dwyane Wade ha giocato la sua ultima gara davanti al pubblico del Miami Heat. La carriera si chiuse poi il giorno dopo al Barclays Center di New York. Lì registrò una tripla doppia davanti ai suoi più longevi compagni, LeBron James, Carmelo Anthony e Chris Paul. Oltre ai tre titoli NBA, essere leader nella storia della franchigia in gare, minuti, punti, assist e palloni rubati, la vittoria più grande ottenuta è un’altra. A Miami, Dwyane Wade è diventato, con le sue gesta, l’ispirazione che Michael Jordan ha rappresentato per lui nella sua Chicago. Quando a nove anni ha iniziato a idolatrarlo per diventare un giocatore di pallacanestro.