Oltre i confini

di Marco Spissu

La mia carriera è un viaggio. Un viaggio con tante tappe, tante città, tra Italia ed Europa. Un viaggio con tanti volti, quelli delle persone che ho incontrato sul mio percorso e mi sono rimaste dentro.

Parte tutto da Sassari, la mia terra, la mia Sardegna. Ero un bambino che voleva sempre stare fuori. Giocavo a pallone, alla tedesca, a nascondino. Facevo mille giochi. D’estate uscivo alle 9 del mattino, tornavo per pranzo, ma alle due del pomeriggio ero già fuori, fino a cena. Mangiavo e di nuovo giù, fino alle 21. Sono davvero contento della mia infanzia. Penso che un bambino felice, sia la cosa più bella del mondo. Bastava un pallone per divertirsi. E una palla, a casa, non mancava mai: la mia è una famiglia di sportivi. Da piccolino ho iniziato con il calcio, però mi piaceva anche il basket perché mio fratello più grande giocava a pallacanestro. Mia mamma lo stesso e anche mio padre. Andavo sempre a vedere le loro partite. Appena c’era un momento libero, un timeout o la pausa tra due quarti, prendevo il pallone, che era più grande di me, entravo in campo, trotterellavo da un canestro all’altro e tiravo, tiravo. Era mia zia a portarmi alle partite. Quando erano in contemporanea, sembrava che avessi il teletrasporto. Facevo un tempo da una parte, poi all’intervallo, ero su un altro parquet. Poi è toccato a me giocare. Lunedì, mercoledì e venerdì calcio. Martedì e giovedì basket. Avevo tutta la settimana impegnata. Sabato e domenica c’erano le partite. Capitava che ne avessi una di calcio la domenica mattina presto e poi subito dopo quella di basket. Appena finivo in campo, mi toglievo i calzettoni, con i polpacci ancora sporchi di fango, mi mettevo i calzoncini da basket e correvo in palestra. Penso sia stato il momento più bello. Crescendo, quando la scuola è diventata più impegnativa, ho scelto lo sport che mi divertiva di più: il basket. Ero in terza media. Sono contento di aver fatto questa scelta. Però il calcio un po’ mi manca, quando ho tempo, d’estate, mi faccio sempre due tocchi. Ero un attaccante, mancino, segnavo, il mio idolo era Alex Del Piero. I miei genitori non mi hanno mai messo paletti, mi hanno sempre fatto scegliere. Penso che questa sia la chiave: lasciare liberi i propri figli, lasciare che si divertano, lasciarli crescere.

Poi le giovanili. Ovviamente alla Dinamo Sassari. La Dinamo è la squadra di un popolo. Ci sono tantissimi abbonati che vengono da Cagliari, che ogni domenica, per andare a vedere la partita, si fanno 200km all’andata e 200km al ritorno. Queste cose ti fanno capire che la Dinamo, non è la squadra di Sassari, ma della Sardegna e del suo popolo. Sono cresciuto lì. Indossare quella maglia è qualcosa di unico e speciale. Ho un senso di appartenenza verso la mia terra e verso il mio popolo che va oltre i confini.

Confini che però ho dovuto valicare. Non è stato facile, essendo sardo andare fuori è tosta. Però sentivo che avevo bisogno di fare questo passo per il mio futuro, per aprire quel cassetto che conteneva un sogno. L’ho fatto a 18 anni e mi si è aperto un mondo, fuori dall’Isola. Sono andato via che ero un ragazzino, sono tornato che ero un uomo. Non hai la famiglia dietro, ti devi arrangiare da solo, sei costretto a crescere. In pochi anni è arrivata una raffica di prestiti, in giro per l’Italia, da Nord a Sud. Sono passato da Bari a Casalpusterlengo, da Reggio Calabria a Tortona. Sono scelte che rifarei e che consiglio a ogni giovane che ha un sogno nel cassetto, quello di diventare un professionista. Il basket dei grandi, l’ho scoperto a Casalpusterlengo. Ho iniziato ad allenarmi con la prima squadra, ma non avevo minuti. Poi i due playmaker si sono infortunati. Era il mio momento: giocai bene. Da quel momento sono riuscito a salire un gradino dietro l’altro, a ogni partita.

Dopo Tortona, che è stata una tappa fondamentale, è arrivata l’offerta della Virtus Bologna, quando era in A2, sempre in prestito. Una città importante, è Basket City, lo sappiamo tutti. Il giorno prima della partita, mi piaceva tantissimo andare a fare una passeggiata in Via Indipendenza. Prendevo il mio tram, che passava sotto casa e mi lasciava lì. Molto tranquillamente, come una persona normale, mi facevo le vasche, avanti e indietro. Ogni tanto qualcuno mi riconosceva, magari era della Fortitudo e mi diceva: «Il derby, il derby, il derby. Mi raccomando, non farci male». Poi incontravi un virtussino che ovviamente ti gasava e ti ricordava il derby, ovviamente, sempre quello. Da lì ti rendi conto quanto sia importante come città, quanto ci tengano alla squadra. Per fortuna è andata veramente bene. Abbiamo vinto la Coppa Italia. Quello è stato un flash per tutti quanti, abbiamo capito che potevamo provare a salire il primo anno. E lo abbiamo dimostrato sul campo vincendo il campionato. Ricordo con affetto tutte le chiamate che mi faceva coach Alberto Bucci dopo le partite. Non si perdeva una telefonata, ogni lunedì si congratulava con me, era davvero un uomo di valori eccezionali. È stata una persona fondamentale per me, mi ha aiutato molto. Tutto a Bologna è stato super, dall’allenatore, allo staff, ai compagni. È stato veramente un anno fantastico e ogni volta che gioco a Bologna, mi viene una lacrimuccia. Sono veramente contento dei progressi che hanno fatto alla Virtus, come società e come squadra. Sono dove meritano di stare. I tifosi mi stanno veramente a cuore. La città mi piace tantissimo, la amo. È spettacolare e poi si mangia da dio. Bologna ce l’ho veramente dentro il cuore.

Poi sono tornato a casa, nella mia Sassari, ero davvero felice, era un sogno che si coronava. Quando c’è stata la firma ero veramente carico, anche se mentalmente ero sfatto dalla serie per la promozione di Bologna, che è finita veramente tardi. Però quando ho firmato con Sassari, avevo un’energia dentro che volevo subito riprendere a giocare a pallacanestro. È sempre stato un sogno giocare da professionista davanti alla mia famiglia, davanti ai miei genitori. Tutti non vedevano l’ora di vedermi all’opera. Fare il profeta in patria, non è mai facile, ma se ci riesci è fantastico. Devi sempre dare l’esempio in campo, devi sempre essere il primo a sputare sangue per la maglia. Il primo anno non è andato benissimo, ma dal secondo anno, quando è arrivato Pozzecco in panchina, tutto è andato alla grande. Abbiamo vinto la FIBA Europe Cup, abbiamo perso lo Scudetto per un soffio. La finale è stata una partita che mi ha fatto davvero male. Ci speravo, ci tenevo tantissimo a vincere. Davanti avevamo Venezia, uno squadrone. Complimenti a loro che hanno meritato di vincere, però se avessimo vinto noi, non avremmo rubato niente. Però, l’anno dopo, abbiamo vinto la Supercoppa. Quindi ho portato a casa due titoli in due anni. Queste vittorie sono cose che ti rimangono dentro, sono davvero orgoglioso di quello che abbiamo fatto. Si respirava un’aria fantastica in quel periodo e vincere è stato bellissimo, era qualcosa che sognavo, riuscire a farlo con questa maglia, che non ha nulla a che vedere con le altre, con tutto il rispetto. Ce l’hai tatuata sulla pelle. Il senso di appartenenza che si ha per quella maglia, soprattutto da sassarese, è un qualcosa che non si può spiegare. Ci ho provato, con i compagni di squadra che venivano da fuori, con gli americani. Ma non è possibile.

Chi è riuscito a capirlo invece è il Poz, è nato un amore con Sassari, i tifosi ci amavano, poi aver vinto 22 partite di fila ha aiutato. Quando è arrivato, ero curioso di vederlo dal vivo, sapevo che era un po’ pazzo, ma quando poi lo conosci capisci che c’è molto altro. È un grande conoscitore della pallacanestro e come allenatore, ha ancora ampi margini di miglioramento. È uno che pensa molto, vuole il meglio per la squadra e per i suoi giocatori. Soffre tantissimo durante le partite. Quelle cose non si vedono. Le persone lo vedono esuberante, vedono i video di lui che festeggia o che salta in braccio a Giannis, e così si creano dei pregiudizi. Grazie a lui ho imparato che prima di giudicare una persona, devi conoscerla profondamente. Tra di noi è stato amore a prima vista: ha creduto in me, ha visto qualcosa in me. Ci siamo trovati nel momento giusto, tutti e due. Adesso conoscete tutti il rapporto che c’è tra noi, è fantastico e me lo tengo stretto.

Il mio viaggio nel 2018 mi ha portato, per una breve parentesi, anche in Spagna, a Tarragona, ai Giochi del Mediterraneo. È stata un’esperienza bellissima, sembrava proprio una mini Olimpiade. Eravamo in un villaggio gigante, con atleti di tutte le nazionalità. Ero lì per giocare con la nazionale di pallacanestro 3×3. Mi sono divertito veramente un sacco, è un tipo di basket e un modo di giocare molto veloce. Le regole sono diverse, perché giochi su una metà campo, ma non sono difficili da capire, ti serve solo un po’ di allenamento. Siamo arrivati secondi, ci tenevo veramente a vincere, peccato che abbiamo perso in finale con la Francia. Ma alla fine una medaglia me la sono portata a casa, anche se d’argento.

Nel 2021 ho lasciato Sassari. È chiaro che in futuro mi piacerebbe tornare lì e concludere la carriera a casa, ma in quel momento era arrivata l’offerta dell’Unicaja Malaga. Quando il mio agente me l’ha detto, ho pensato: wow! Il posto era fantastico, ero capitato in una città super e avevo una casa a 100 metri dal mare. Ma sappiamo tutti com’è andata. È una faccenda, sentita e risentita. A quel punto è arrivata l’opportunità di andare in Russia, al Kazan. Anche in quel caso ho detto wow, però nell’altro senso, non in senso positivo. Ho sgranato un po’ gli occhi, ma la chance di giocare in Eurolega era da cogliere al volo. E l’ho fatto immediatamente, era qualcosa che volevo provare, non ci ho pensato due volte a dire sì. Ero molto preoccupato e avevo ragione. Il primo mese non è stato facile. È un’altra cultura, un Paese distante da casa tua. Uscivi e c’era freddo, ogni giorno le temperature arrivavano a -25 o a -30. Molta gente in Russia non parla l’inglese, quindi giravo con il traduttore. Mi ha aiutato molto coach Claudio Coldebella, è stata una figura fondamentale. Aveva sempre una parola di conforto quando mi vedeva giù. Sotto casa c’era un ristorante italiano, anche Giustino, il proprietario, mi ha aiutato molto. Sono due persone che porto dentro di me e che sento spesso. Poi è arrivata la mia ragazza, che ha portato anche il mio cane. Da lì è stato tutto più facile. Anche i risultati della squadra hanno aiutato, andavamo bene sia in campionato sia in Eurolega. Quando è scoppiata la guerra, quando è iniziato tutto sono tornato a casa, la mia ragazza e il cane sono tornati in Italia. I miei genitori erano molto preoccupati, sono tornato per tranquillizzarli, per dire loro che a Kazan ero al sicuro, che lì non c’era niente. Sono tornato e ho finito la stagione da solo. È stata tosta ma è un’esperienza che rifarei, sono tutte cose che ti aprono la mente, che ti fanno vedere altre culture, che ti affascinano.

Da Kazan a Milano, per l’Europeo. Non vedevamo l’ora di disputare il girone in casa. Vedere l’Assago Forum pieno è stato incredibile, emozionante per noi giocatori. Poi Berlino, sapevamo di dover affrontare la Serbia e, forse, molte persone non credevano in noi, ma noi eravamo i primi a crederci, in campo. Lo abbiamo dimostrato ed è uscita una partita fenomenale da parte di tutti. Una delle partite più belle della mia carriera. Abbiamo buttato una delle squadre più forti in Europa. Contro uno come Jokic, che se lo guardi come da fuori dal campo, con la bocca aperta, ti devasta, devi entrare in campo come se fosse un altro giocatore e darci dentro, dargli botte, picchiarlo, fare qualcosa per non farlo esprimere. In quei momenti pensi solo alla tua squadra, a vincere, a fare del tuo meglio. Poi quando finisce la partita, ti dici: cavolo abbiamo battuto la Serbia di Jokic, Micic, Lucic e chi più ne ha più ne metta. Abbiamo vissuto tantissime emozioni, anche in hotel, le chiamate con la famiglia. È stato un percorso, quello dell’Europeo, che secondo me ha fatto bene al movimento italiano. Siamo un gruppo unito e si vede anche in campo. La cosa che mi ricordo meglio, se chiudo gli occhi, sono gli abbracci che ci siamo dati dopo la partita con la Serbia. Erano abbracci che duravano tanto, che ti stritolavano, che ti facevano capire che avevamo fatto qualcosa di grande, tutti insieme. Abbracci che ti davano forza, energia, uno con l’altro. Speriamo di ripetere questi abbracci più spesso. Dobbiamo ripartire da questo.

Da Berlino al presente, a Venezia. Il primo giorno è stato fantastico, mi hanno portato in gondola in piazza San Marco, non potevo iniziare meglio. Era una giornata stupenda e ho fatto un giro per la città. L’impatto con la città è stato spettacolare, è qualcosa di unico. Non ti stanca mai, voglio sempre avere un po’ di tempo libero per visitarla ancora meglio. Alla Reyer Umana è tutto positivo, la società è ambiziosa, tutti vivono di pallacanestro, dal presidente al proprietario. Si sta bene e il gruppo è super. All’inizio abbiamo avuto qualche problema di rodaggio, ma ora siamo sulla strada giusta per poter fare bene.

Il futuro mi porterà a Oriente, in Giappone, Filippine e Indonesia, per il Mondiale 2023. Dobbiamo arrivarci belli carichi. Il morale è alle stelle, ci siamo qualificati con due giornate d’anticipo, questo ti fa capire tanto. È veramente una gioia indossare la maglia azzurra. Qualcosa che non si può descrivere. Da luglio dobbiamo prepararci al meglio, è chiaro che anche lì vogliamo fare bene, vogliamo toglierci qualche soddisfazione. E se Paolo Banchero dovesse accettare, saremo contenti. Sarà un innesto in più, che male non ci fa. Un giocatore super che sta dimostrando di poter fare quello che vuole al primo anno in NBA. Ci può far solo che bene. È chiaro che la nazionale non è uno contro cinque, si gioca di squadra, quindi dobbiamo essere bravi anche noi a fargli capire che entra in un contesto in cui serve il suo aiuto, ma che ci sono anche tanti altri giocatori che possono fare bene. Se lui entrerà con questa mentalità, potremo toglierci grandi soddisfazioni.

Il mio viaggio, però, mi riporta ogni estate a casa, in Sardegna. Con tre amici abbiamo deciso di organizzare il mio camp, abbiamo già fatto due edizioni, sono state spettacolari e quest’estate ci sarà la terza. Non vedo l’ora. Il divertimento dei bambini è la prima cosa, mi diverto anche io con loro. È una cosa bellissima. Inoltre, mi piace dare loro la possibilità di conoscermi meglio, di vivermi e di vivere la mia quotidianità, di rubarmi qualche consiglio. Il primo, e quello che penso sia fondamentale, è che si può diventare professionisti anche rimanendo umili, rimanendo se stessi. Io sono un ragazzo semplice, molto tranquillo, uno che non se la tira. Faccio le cose che fanno tutti i ragazzi della mia età. Quando sono a casa guardo tantissime partite di pallacanestro, soprattutto di Eurolega, oppure gioco alla PlayStation o con il mio cane, lo porto a spasso. L’umiltà è alla base di tutto, ma anche la determinazione, non bisogna mollare mai, quando le cose vanno male ma anche quando vanno bene. Bisogna sempre voltare pagina e cercare di andare avanti nel miglior modo possibile. Ho fatto il camp proprio perché voglio che i ragazzi capiscano che sono una persona normale. Sono alto un metro e 84, ho un po’ di muscoli ma si vedono poco. Penso che sia fondamentale guardino più me che un Antetokounmpo, che è 2 metri e 10 e ha un’apertura alare infinita. Essere normale, fisicamente, ti spinge a dare di più. Sei più basso degli altri, quindi devi essere più veloce, devi essere più rapido, devi pensare 2 secondi prima degli altri, perché sono più grandi e grossi di te. Però questo non è stato un limite, l’ho sempre vissuto come una sfida, che ho accettato volentieri. Anche perché, sono cazzuto di mio.