La formula sbagliata

di David Kyle Logan

La meraviglia di essere un adolescente è l’imprevedibilità di quello spicchio di vita. Non per la spensieratezza che si porta dietro, ma per la totale incertezza di quello che accadrà. Perché tu pensi di saperlo, ma non lo sai. Ed è una sensazione che non potrai mai vivere a quell’età, ma 10 anni più tardi. Solo 10 anni più tardi potrai sorridere pensando a quanto ti sbagliassi.

 

Quando hai 13 anni e inizi il liceo, spesso non hai un piano prestabilito. Ti sembra che intorno, sì, gli altri abbiamo già chiaro il proprio destino. Ma non è così. Se a quell’età vi sentite persi, sappiate che non è così. E se vi sembra che gli altri abbiamo già scritto il piano per il loro futuro, sappiate che potrebbero sbagliarsi.

 

Io, ad esempio, non mi sono iscritto al College per diventare un giocatore professionista di basket. Sì, non ero male, cresciuto nel mito di BJ Armstrong e mio padre che mi ha fatto vivere di basket. Ma tutta la mia adolescenza è stata improntata su un’altra strada: volevo essere un ingegnere aeronautico. Applicare i principi della scienza e della tecnologia a prodotti altamente sofisticati. Che fossero aerei o satelliti aerospaziali. Ricercare, progettare, costruire, e ancora progettare. Partecipare all’avanzamento di una disciplina così affascinante. Quando ero al college, ho incentrato la mia carriera sullo studio dell’aerodinamica, delle formule e di quello che per me, all’epoca, rappresentava una vera e propria ambizione.

 

Cosa c’entra questo con il basket? Assolutamente niente. E non vi dirò che con quegli studi ho imparato a volare a canestro. Le due strade non si sono incrociate: con il passare del tempo, una ha escluso l’altra. A 40 anni sono ancora protagonista.

 

A tenermi vivo è la mia voglia di competere. Sono cresciuto con un fratello minore e un cugino che fin da subito mi hanno messo alla prova. Nello sport cercavamo sempre di superarci e questo mi ha inserito nel DNA la voglia di andare sempre al massimo. A me non interessa se davanti a me ho un giocatore più forte, o una squadra più preparata: a me interessa vincere, anche adesso che sono a fine carriera e ci sono giovani più in forma di me. Che poi, sono tutti più giovani di me i miei avversari!

 

 

Mio padre, quando ero piccolo, giocava a basket a Chicago. Ma non ho vissuto QUELLA Chicago. A 8 anni mi sono trasferito in Indiana. I miei nonni mi hanno incultato il mito di BJ Amstrong, ed essendo anche io piccoletto ma con un gran dito, ho avuto il suo riferimento come stella polare. Come vi ho detto, non avevo l’intenzione di diventare un professionista. Volevo che il college mi desse in cambio un’istruzione di livello. Però, mentre gli anni trascorrevano e io continuavo a giocare, mi sono accorto che stavo crescendo nella pallacanestro. 

 

E piano piano, costantemente, gli aeroplani hanno lasciato spazio al canestro. Adesso mi vedete con la 40 sulla maglia: 40 come gli anni che ho. Però, nella mia carriera, quando ho potuto ho indossato il 12. Per fare di questo sport la mia vita, sono volato in Europa.

 

Mamma mia, che differenza. L’adattamento rispetto agli Stati Uniti non è stato facile! Nel 2005 sono arrivato per un breve periodo in Italia, a Pavia: dopo due mesi volevo tornare indietro. Era tutto troppo diverso per farcela da solo. La prima differenza, il grande scalino, era la lingua: non era semplice capire, nessuno mi aveva insegnato lo stile di vita europeo. La diversità tra le varie culture l’ho dovuta apprendere da solo e in fretta. In quella squadra c’era anche un certo… Danilo Gallinari! Si vedeva che aveva talento, faceva tante cose buone per la sua età. Lo notavi che era bravo, ma non avrei mai potuto prevedere se sarebbe diventato un cestista da NBA o sarebbe rimasto un giocatore europeo qualunque.

 

Ma il vero arrivo oltreoceano è accaduto due anni più tardi, nel 2007, quando sono andato in Polonia allo Starogardzki Klub Sportowy. Dopo l’esperienza in Israele e il ritorno negli USA, eccomi qui. Arene caldissime, voglia di vincere, ma che distanza. Certo, quando ti abituati allo stile di vita, poi è tutto in discesa. La più grande differenza l’ho percepita tra casa e l’Europa. La prima volta in Italia da adulto, a Sassari, è stata più semplice: ho trascorso varie stagioni in questi paesi ma ancora non vedo tutte queste differenze culturali al suo interno! Ma lo stile di vita sì, mi piace molto.

 

In Sardegna è stato magico: abbiamo vinto tre competizioni in un anno! Scudetto, Coppa Italia e Supercoppa! Non ci è ancora riuscito nessuno da quel giorno. All’epoca non mi sono reso conto di cosa avevamo fatto. Oggi, quasi 10 anni dopo… beh, ma cosa abbiamo fatto?! Quando sono tornato a Sassari nel 2021 ho trovato tutto immutato ed è stato bello rivivere quei momenti e quelle sensazioni, giocando ancora per loro.

 

 

Anche per questo, adesso, ho scelto di andare a Cantù in A2. Perché c’è Meo Sacchetti. Abbiamo vinto insieme quello Scudetto incredibile nel 2015 e abbiamo un ottimo rapporto. Cantù è una squadra storica in Italia, e senti la storia di questo luogo e dei suoi tifosi. Uno dei motivi per cui ho accettato, però, è proprio Meo. Mi piace giocare con lui, quindi è stato semplice decidere.

 

In tanti mi chiamano ‘Professore’, ma non ho mai capito come sia nato questo soprannome. Se ripenso a Sassari, però, ho i brividi quando mi torna in mente Gara 6 delle Finals Scudetto contro Reggio Emilia. Epica? Epica. Eravamo sotto, siamo andati al terzo overtime e alla fine l’abbiamo portata a casa! Una sfida sensazionale per delle Finals assurde.

 

 

Alla fine del primo overtime, sparai una tripla dalla distanza. Dentro. Loro sbagliarono e la palla arrivò a Dyson. Che roba… decide di giocare lui l’ultima azione, fa scorrere il cronometro e infila una schiacciata di potenza allo scadere. Cinquemila persone si alzano in piedi ed esplodono. Al secondo overtime, ancora Dyson ci riportò in parità. Nel terzo overtime ci siamo scatenati: una pioggia di triple, sia io che lui superiamo la doppia cifra. Si va a gara 7 e a scrivere la storia.

 

Me la porto dentro.

 

Negli anni mi sono anche trasformato in imprenditore. Sebbene veda il mio futuro nel basket, insieme ai miei genitori ho aperto un’azienda di autotrasporti. Ma soprattutto ho creato la mia famiglia: i miei figli sono nati e cresciuti con la pallacanestro in casa, hanno la voglia nel sangue di prendere il pallone e tirarlo a canestro. Non devo essere da esempio da loro per questo, ce lo hanno innata. Il più grande è bravo per la sua età, mi chiede consigli: penso migliorerà.

 

Ma il mio compito, con loro, è educarli e intrattenerli. Che poi è il mio passatempo preferito quando non sono in campo. Vedremo per quanto giocherò ancora. A volte ci penso, nella parte posteriore della mente il pensiero viene fuori. Ma non faccio programmi: volevo diventare ingegnere aeronautico e sono finito per tirare da 3. Non avevo fatto bene i conti. A volte, le formule, non reggono il passo con la realtà. Vi scrivo questa lettera, ma non so scrivere ancora il futuro.